23 settembre 2013 - Stazione Mediopadana
Un'architettura irreale, dove il
senso della realtà
è svanito a fronte della ricerca di una tecnologia
sempre
più avanzata, uno spazio dove anche le
persone che lo vivono e lo utilizzano
non sembrano vere.
Calatrava è un
architetto che ci ha abituato nel corso della sua carriera a rendersi
particolarmente riconoscibile all'interno del paesaggio urbano nel quale
realizza le sue opere di ingegneria e/o architettura. Le sue opere sono sempre distinguibili per l'utilizzo
di forti elementi di carattere architettonico e di carattere
ingegneristico.
Ne sono un esempio
molto significativo l'uso forzato e quasi avveniristico del bianco, volto a
cercare di creare un ambiente etereo, un uso del colore e dello spazio per
certi aspetti freddo e distaccato da quella che potrebbe essere considerata una
realtà di scarna di perfezioni, sporca di colori e di spazio-spazzatura
considerando le interazioni e le ibridazioni di materia e urban-landscape
contemporaneo.
Ulteriore esempio ugualmente significativo la sua incredibile attenzione per il risalto che
viene costantemente dato alla struttura, un messaggio di natura ingegneristica, il quale può essere considerato quasi un richiamo a quella corrente di pensiero che parte dalle
opere di ingegneria strutturale a cavallo tra la fine dell'800 e i primi del
900 fino ad arrivare al razionalismo strutturale delle opere di Guimard, Horta
e Berlage per confluire in un più contemporaneo utilizzo della struttura in
qualità di forma come ad esempio nell'opera di Piano a Parigi (centro Pompidou)
o anche nell'opera di Vittoriano Viganò a Milano nella sede centrale della
facoltà di Architettura (Politecnico di Milano).
Analizziamo a questo punto l'intervento di Calatrava per la stazione dell'alta velocità a Reggio Emilia. La stazione nasce nel cuore della pianura padana, in un luogo particolarmente scarno di urbanizzazione, il paesaggio circostante è caratterizzato da lunghe distese di campi e piccole e non molto alte costruzioni disperse all'interno del landscape. Questa ambientazione crea particolare risalto ad ogni opera di notevole interesse. Il bianco delle curve sinuose della stazione e dell'enorme volta del ponte che avvolge l'autostrada sono perfettamente riconoscibili e, anche ad un occhio profano, non rimangono inosservate.
Analizziamo a questo punto l'intervento di Calatrava per la stazione dell'alta velocità a Reggio Emilia. La stazione nasce nel cuore della pianura padana, in un luogo particolarmente scarno di urbanizzazione, il paesaggio circostante è caratterizzato da lunghe distese di campi e piccole e non molto alte costruzioni disperse all'interno del landscape. Questa ambientazione crea particolare risalto ad ogni opera di notevole interesse. Il bianco delle curve sinuose della stazione e dell'enorme volta del ponte che avvolge l'autostrada sono perfettamente riconoscibili e, anche ad un occhio profano, non rimangono inosservate.
Il ponte che collega
l'uscita dell'autostrada con la viabilità della zona e, di conseguenza anche la
stazione, è una classica opera dell'architetto, nella quale viene messa in
mostra tutta la sua abilità nel dare risalto ad una struttura non particolarmente
articolata ma notevole per realizzazione tecnica. I tiranti utilizzati a
sostegno della struttura a volta sono un eccellente esempio di utilizzo
dell'estetica della struttura. Essi assolvono il ruolo di struttura e allo
stesso tempo sono la componente architettonica ed estetica del progetto.
Arrivati alla
stazione ci si immerge in un ambiente futuristico. L'utilizzo del bianco in
maniera estenuante evoca uno spazio quasi irreale, la struttura sembra una
stazione aliena sbarcata sulla terra. L'interazione col paesaggio è
praticamente nulla, il distacco creato dall'opera architettonica crea una sorta
di realtà nella realtà. Un modus operandi probabilmente voluto dall'architetto
ma allo stesso tempo una ennesima conferma di quello che ormai è diventato
l'utilizzo dell'architettura nell'epoca in cui viviamo e cioè una continua
competizione portata all'affermazione delle archistar nella loro dissacrante
riformulazione e ricomposizione del paesaggio nel quale viviamo.
L'interno è abbastanza semplice, tutto si svolge attorno ad una hall che gioca il ruolo classico di spazio centrale. Da questo luogo partono i due corpi ascensori che portano alla banchina dei treni, mentre le scale mobili sono realizzate lungo la carreggiata. Ma proprio questo luogo evoca le sensazioni più particolari. Le luci sono diffuse, le vetrate fanno entrare la luce non in modo diretto essendo coperte dalla struttura della parte superiore e quello che si percepisce è uno spazio freddo, quasi spaziale, uno spazio che sembra esattamente quello che siamo soliti vedere quando ci vengono illustrati i rendering di un progetto. Potrebbe essere questa l'architettura 2.0? Un'architettura irreale, dove il senso della realtà è svanito per lasciare spazio alla ricerca di una tecnologia sempre più avanzata, uno spazio dove anche le persone che lo vivono e lo utilizzano non sembrano vere. L'unica cosa vera di questo spazio sembra essere il rumore delle macchine proveniente dall'autostrada che scorre accanto e la visione del paesaggio esterno alla stazione con i pali della luce e i lunghi landscape di campi della pianura. Ovviamente non si vedono addetti ai lavori, non ci sono biglietterie o bar o negozi, tutto è virtuale.
Salendo invece nello
spazio dedicato ai binari e all'attesa dei treni ci si immerge in un luogo
ancora più irreale. Un'esplosione di struttura al sopra delle proprie teste.
Un'enorme copertura di acciaio bianco e vetro, la luce che entra e crea strisce
bianche su tutta la banchina. Nel gergo più comune si potrebbe definirla come
una grande serra, il caldo della luce riflessa dalle infinte vetrate crea una
sensazione di smarrimento, non è difficile immaginare la temperatura che si può raggiungere in una giornata di sole in piena estate. Si potrebbe quasi paragonare
questo spazio al tanto acclamato e non sopravvissuto Crystal Palace di Londra
del 1851, un grande palazzo di vetro che non a caso fu costruito e progettato
dall'allora noto costruttore di serre Joseph Paxton.
Provocatoriamente
verrebbe quasi da suggerire all'architetto di allestire un grande giardino
botanico nella parte più esterna delle
banchine ferroviarie, oppure di utilizzare in qualche modo tutto questo
calore generato dal riflesso solare a contatto col vetro. Ma forse nell'epoca
in cui stiamo vivendo sarà necessario abituarsi a vivere in spazi di questo
tipo, la cultura della nostra epoca ci porta ad essere più vicini ad un mondo
virtuale e se l'architettura riesce a sembrarlo pur rimanendo reale forse ha
raggiunto il suo scopo ed è la cosa più contemporanea che esista.
Il servizio fotografico: